Articolo tratto da scienze.fanpage.it
Un relitto affondato nel II secolo a. C. al largo delle coste toscane svela i segreti dei rimedi per gli occhi utilizzati dagli antichi: che non erano proprio simili ai nostri.
Normalmente in archeologia la scoperta di antichi farmaci è molto rara. Difficilmente le sostanze che compongono i medicinali resistono all’usura del tempo, ragion per cui scarsissime sono le conoscenze dirette in merito alla composizione chimica di essi: in compenso la letteratura medica, soprattutto greca, compensa questa che altrimenti sarebbe una grossa mancanza. Una significativa eccezione a questa considerazione generale è costituita, però, dalle pillole contenute all’interno di una pyxis (ovvero una scatola riservata per lo più agli unguenti) di stagno rinvenuta a bordo del “vascello del Pozzino”, ovvero quel che resta di una nave affondata al largo delle coste toscane, dinanzi a Piombino, nel II secolo a. C.
Conservate in un astuccio che doveva presentarsi come una sorta di tubetto di aspirine ante litteram, oltre vent’anni fa vennero rinvenute dagli archeologi che lavoravano sul relitto, ritrovato nel 1976: si trattava di sei pasticche discoidali di colore grigiastro dal diametro di circa quattro centimetri e dall’altezza di un centimetro. Verosimilmente facevano parte di una sorta di cassetta del primo soccorso presente sulla nave o, magari, della valigetta di un medico in viaggio sul vascello, dato confermato dalla presenza di altri oggetti individuati all’epoca assieme ad esse: fiale di legno e strumenti che, presumibilmente, potevano avere impieghi chirurgici.
Certamente, non era che una frazione del carico trasportato da quella nave proveniente probabilmente dalle coste greche (come si suppone anche sulla base delle caratteristiche dello stesso carico) e diretta verso quelle etrusche che finì miseramente in un naufragio. Tra anfore e oinochoe, lampade e vasi, quella piccola imbarcazione che misurava meno di venti metri e di cui oggi restano soltanto pochi resti, portava con sé reperti degni della massima considerazione da parte dell’archeologia subacquea. Tuttavia quelle pasticche, a causa della loro natura particolare, costituiscono il reperto di gran lunga più interessante.
Già sottoposte a diversi tipi di analisi negli anni, sono state recentemente oggetto di ulteriori esami: in uno studio curato da Erika Ribechini, Maria Perla Colombini e Jeannette Lucejk del dipartimento di Chimica industriale dell’Università di Pisa, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e con il dipartimento di Biologia evoluzionistica dell’Università di Firenze, nuove indagini chimico-mineralogiche e paleobotaniche sono state condotte su quelle pasticche vecchie di oltre duemila anni. I risultati del lavoro sono stati pubblicati dalla rivista PNAS ed hanno consentito agli esperti di giungere ad una conclusione: le compresse venivano utilizzate per la cura di problemi degli occhi.
Composte per un buon 80% da sali di zinco (idrozincite e smithsonite) le pasticche erano costituite inoltre da amido, resina di pino, lipidi di origine vegetale ed animale; molti residui vegetali individuati grazie agli esami degli studiosi, come pollini e fibre, potrebbero essere il frutto di una semplice contaminazione e non parte degli ingredienti fondamentali del farmaco. Proprio la composizione chimica, oltre che la forma, lascerebbero pochi dubbi agli esperti: i piccoli dischi servivano a lenire la sofferenza degli occhi, un dato che troverebbe anche un riscontro linguistico nell’origine della parola latina collyrium (da cui collirio) di derivazione greca, in cui kollyrion indicherebbe, tra i diversi significati, rimedi medici in forma di panetto.
Ancora oggi i sali di zinco vengono impiegati nell’oftalmologia e nella dermatologia perché dotati di azione rinfrescante e protettiva e come agenti batteriostatici, mentre è assai probabile che la resina servisse a conferire un gradevole odore al farmaco. Facile immaginare che tale collirio non potesse essere usato come normalmente si applicano le gocce oculari a cui siamo abituati oggi: presumibilmente ci si serviva all’occorrenza delle pasticche sotto forma di impacchi, come suggeriscono le descrizioni di rimedi di questo tipo di cui siamo in possesso grazie a Discoride Pedanio e Galeno di Pergamo, medici (e farmacisti) dell’antichità che lasciarono grande testimonianza del proprio sapere nelle società in cui vissero, con la propria attività, e ai posteri, grazie agli scritti.